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Crisi del diritto, ritorno dello Stato, tramonto dell’Europa? Una traccia di riflessione.

Anna Guerini e Omid Firouzi Tabar

L’ipotesi di dedicare il seminario di Euronomade di maggio 2025 al rapporto tra crisi del diritto, ritorno dello Stato ed efficacia delle lotte è emersa alla fine della due giorni bolognese di riflessione sulla trasformazione della riproduzione sociale nella congiuntura di guerra a novembre. All’epoca, il problema di una rinnovata torsione autoritaria, che in termini generali è certamente risalente, sul piano nazionale si concretizzava soprattutto nelle contese sui centri di detenzione dei migranti in Albania e sul DDL “sicurezza”; contemporaneamente, in Europa si discutevano le proposte di ridisegno del patto sulle migrazioni e, negli stessi giorni dell’elezione di Trump alla Casa Bianca, il governo tedesco entrava definitivamente nella crisi che ha portato alle elezioni anticipate di febbraio. Questi eventi e processi si sono installati saldamente all’interno del caos sistemico che ha al suo centro la guerra quale cardine di processi globali, sintomatici di molteplici crisi interconnesse.

In pochi mesi, con l’elezione di Trump, la ripresa dei bombardamenti su Gaza, Cisgiordania e Libano dopo una breve e relativa tregua, le “trattative” per una sospensione della guerra in Ucraina, la rincorsa alle terre rare, il piano di riarmo predisposto dall’Unione Europa, assistiamo a un’ulteriore accelerazione dei processi di riconfigurazione che segnano la congiuntura di guerra e le transizioni del capitale, che sembrano avere per parole d’ordine la guerra dei dazi e lo scontro tra complessi industriali bellici. Se gli esiti di questi processi rimangono in larga parte imprevedibili, gli effetti del regime di guerra si fanno sempre più evidenti. Tra questi c’è l’esaurimento dell’autonarrazione dell’occidente liberale e soprattutto dell’Europa come spazio politico e come progetto di pace e di diritti. Se, da un lato, questa era ed è, appunto, un’autonarrazione con cui si è a lungo tentato di occultare decenni di politiche post-coloniali che nessuna celebrazione ex-post può cancellare, dall’altro i piani di riarmo sono il segno di un cambio di passo che non può essere ignorato. La retorica dei nazionalismi e del ritorno dello Stato, che una decina di anni fa assumeva i contorni dei “populismi”, di destra e di sinistra, ora si proietta su scala globale con una configurazione differente da quella prevalentemente congiunturale che la caratterizzava all’epoca. Nuovamente, guardare alla riproduzione sociale consente di mettere a fuoco questo salto di scala del nazionalismo: la destabilizzazione e le ipotesi di riorganizzazione della riproduzione, basate su privatizzazione e industria bellica, infatti, sembrano tradursi in un attacco allo Stato in quanto punto di riferimento delle politiche di welfare, più che nel suo ritorno. La guerra alimenta questo salto di scala del nazionalismo, il quale, invocando la restaurazione delle gerarchie “tradizionali” – patriarcali, razziste, di classe – che decenni di lotte hanno rifiutato, presenta il popolo arruolabile come vettore di identificazione omogenea. È sempre il popolo ad essere al centro degli inviti della sinistra “progressista” ad armarsi e partire per difendere una non meglio definita Europa, bisognosa di spirito guerriero. La combinazione di politiche di warfare, filtraggio e controllo della mobilità indisciplinata e della vita delle persone migranti in Italia e in Europa, repressione delle lotte sociali e l’imporsi della piattaforma come modello organizzativo e punto di riferimento della governance –che sta caratterizzando un’ampia porzione di mondo, e non solo quelli che consideriamo “paesi occidentali” – dà più di qualche indicazione sui probabili contorni di questa Europa da difendere.

In questo contesto si colloca la torsione autoritaria sul versante del diritto, soprattutto penale e amministrativo, e l’interconnessa moltiplicazione di decretazione emergenziale e ordini esecutivi imprimono forte accelerazione a specifiche dinamiche di controllo sociale e assoggettamento (produttivo) delle vite. Si tratta di una stretta securitaria e punitiva che – planando sulle già aggressive dinamiche di discriminazione e selettività attive intorno alle linee del colore, del genere, dell’indigenza e in riferimento ai comportamenti indecorosi e “antisociali” – ci mette di fronte a un protagonismo inedito della giustizia penale e amministrativa. Una sorta di rivisitazione di processi “classici” di criminalizzazione di soggetti indesiderati e di classi pericolose, che ha avuto con la zero tolerance americana nei primi anni ’90, rapidamente importata in Europa, un punto di svolta tale da spingere Loïc Wacquant, ad esempio, a indicare in quelle metamorfosi del controllo sociale un salto di paradigma dallo stato sociale allo stato penale. Questa cavalcata autoritaria mira a produrre alcuni effetti di potere che incominciano a dispiegarsi. Ad essere sintomatica è la tendenza a bypassare le logore garanzie (anche costituzionali) di ciò che resta dello stato di diritto e della governance neoliberale, ridimensionandole radicalmente attraverso un processo rapido di esautoramento del diritto stesso almeno su due versanti: la delegittimazione degli organismi normativi di garanzia come le corti europee e internazionali e la regressione dell’apparato normativo dal punto di vista dei diritti e delle garanzie liberali. Quest’ultimo processo viene mobilitato attraverso una nuova e intensa produzione normativa, agevolata dalle vittorie elettorali delle destre populiste e neofasciste, che attacca frontalmente le libertà e i diritti conquistati in decenni di lotte.

La velocità di queste trasformazioni trasmette un senso di inadeguatezza temporale nella lettura degli eventi e del loro concatenarsi e ibridarsi a livello globale, e fa risaltare uno degli effetti di ritorno di questa politica, vale a dire la difficoltà a far sedimentare e a connettere efficacemente i molteplici e differenziati processi di mobilitazione che hanno segnato l’ultimo ciclo di lotte. Da un lato, ci sono movimenti che lo hanno attraversato, incidendo significativamente sull’immaginario collettivo e mostrando una capacità di mobilitazione inedita. L’esempio più calzante è probabilmente Ni Una Menos, che da quasi dieci anni assume il legame tra violenza patriarcale e riproduzione sociale a fulcro di un rapporto di dominio sistemico, che sfida esprimendo una pretesa di libertà radicale, concretizzata anche nella sperimentazione di nuove forme organizzative, tanto sui territori quanto sul piano nazionale e transnazionale. Altrettanto significativa è la mobilitazione dei lavoratori e delle lavoratrici ex-GKN, che muovendo dal piano vertenziale ha reinventato le forme e gli strumenti “classici” di lotta che articolano una proposta che va ben oltre la fabbrica. Nell’uno e nell’altro caso, queste proposte hanno trovato un momento di temporanea sintesi nell’elaborazione di “piani”, contro la violenza maschile e di genere e per la transizione giusta, che esprimono la tendenza a una sovversione complessiva del rapporto tra produzione e riproduzione, che va oltre le questioni principali intorno a cui quelle lotte si articolano. Dall’altro, c’è una moltitudine di istanze più o meno organizzate e più o meno durature: le innumerevoli iniziative territoriali, come gli sportelli per le persone migranti o gli ambulatori popolari, le lotte ecologiste, contro le molteplici espressioni del regime confinario, per la casa, quelle sindacali, che negli ultimi mesi si sono concretizzate in numerosi scioperi nel settore della logistica, dei trasporti, della sanità, della scuola e dell’università. Quest’ultima, in particolare, da più di un anno è teatro delle mobilitazioni contro il genocidio in atto in Palestina e contro il DDL Bernini, che uniscono precarie, studentesse, personale tecnico-amministrativo e docente. Tutte queste lotte, più o meno esplicitamente e direttamente, chiamano in causa la riproduzione sociale come terreno di mobilitazione e di rivendicazioni, coinvolgendo soggettività diverse tra loro e innescando reti di solidarietà allargata ed eterogenea. E tutte hanno stabilito un nesso stringente tra la loro proposta politica, tanto dal punto di vista del contenuto quanto delle forme organizzative sperimentate, e la critica alla verticalità delle strutture politiche che hanno guidato le lotte negli anni Novante e Duemila. Si tratta di una molteplicità portatrice di una potenzialità moltitudinaria, certificata proprio dall’impostazione del DDL “sicurezza”, che significativamente la assume a bersaglio, riconoscendo nella proliferazione di processi di solidarietà e mobilitazione diffusa e differenziata un pericolo per quell’arruolamento sociale alla guerra e alla sua logica che rappresenta oggi la parola d’ordine delle politiche tanto nazionali quanto europee.

Copertina del primo numero di Teiko

© Il Sole 24 Ore

La sfida rappresentata da questa molteplicità non riguarda solo la durata di ciascuna lotta, o la classica alternanza di “momenti” di maggiore o minore incidenza, e quindi di maggiore o minore efficacia nel “dettare l’agenda” e le parole d’ordine, impattando l’immaginario collettivo come hanno saputo fare soprattutto le lotte femministe e climatiche. Da un lato produrre e tenere vivo questo impatto si rivela sempre più difficile, dall’altro osserviamo una crescente difficoltà nel “produrre convergenza” e sedimentare queste lotte prima che la forza propulsiva che le alimenta si affievolisca o si esaurisca, sia dal punto di vista dei risultati, sia sul piano dell’interazione, più o meno problematica, ma utile a aprire spazi di contraddizione, con le mediazioni classiche (sindacati, partiti, istituzioni locali e non). Si innesca, così, la paradossale illusione di stare nel deserto, nonostante le molte piazze affollate e determinate – in Italia e in Europa, ma anche in Turchia, in Serbia, in Iran –, lo sviluppo di nuove reti nazionali e transnazionali e il permanere di presidi territoriali.

Il seminario di maggio è una prima occasione per sbrogliare la matassa di questioni sommariamente richiamate, individuare le ragioni di questa difficoltà, e tracciare un quadro che consenta di identificare spazi promettenti per la sedimentazione delle lotte. La crisi delle mediazioni e il salto di scala del nazionalismo, ad esempio, chiamano in causa la complessiva ridefinizione di cosa sia “politica”, suggerendo una sua definitiva trasformazione tanto dal punto di vista delle istituzioni, in particolare quelle sovrane, che l’hanno tradizionalmente organizzata, quanto dei processi e degli attori che, soprattutto su scala transnazionale, esautorano e svuotano quelle istituzioni – piattaforme e flussi di capitale, ma anche organismi come la Corte Penale Internazionale. La crisi del diritto moderno e la saturazione del discorso liberale sui diritti umani, da un lato, conferma definitivamente che la forma giuridica, assunta a bussola del progetto “civilizzatore” dell’Occidente, non è un’astrazione neutra ma è radicata nella vicenda storica di affermazione del capitale e accompagna le sue trasformazioni, mettendo a nudo la violenza di quel progetto; dall’altro invita a riassumere l’interrogazione radicale sui diritti e le mediazioni classiche, e a prendere sul serio la loro crisi come possibilità di apertura di un orizzonte di radicale trasformazione che non si limiti a rimpiangere quelle mediazioni. Non serve ricordare il ruolo di giudici, tribunali e teoremi nel contrasto e nella repressione di lotte, mobilitazioni e resistenze e, complessivamente, nell’accompagnare attivamente le fasi di evoluzione e metamorfosi del capitale. Non si può non rilevare, tuttavia, che, recentemente, corti nazionali, europee e transnazionali hanno arginato o quantomeno frenato interventi e prassi istituzionali repressivi e criminalizzanti. Ad essere significativa è la tensione tra istituzioni e poteri che ne è derivata, che ha mostrato nel modo più limpido proprio la saturazione del discorso liberale sui diritti umani. I punti di caduta di questa tensione, infatti, coincidono con le politiche emblematiche della virata securitaria – la criminalizzazione della solidarietà in mare, le pratiche illegittime delle questure e prefetture in materia di diritto asilo, i centri in Albania e le più violente e “creative” ordinanze comunali antidegrado –, sia il regime di guerra e i suoi effetti, come mostrano le denunce della condotta genocida di Israele presentate dal Sudafrica alla Corte internazionale di giustizia e le decisioni della Corte penale internazionale in merito. Ci sembra utile sottolineare questa tensione non per indicare nelle corti internazionali gli elementi di sintesi di battaglia politica, ma perché è sintomatica della ridefinizione dei rapporti tra gli attori in campo – stati, organismi internazionali, alleanze regionali, corporations – dentro la policrisi in corso, ed è pienamente coerente con il regime di guerra, che ha rimescolato le carte del confronto e del dibattito anche nei movimenti.

Per questo, l’urgenza di identificare l’attacco a ogni forma di diserzione sociale ci spinge a discutere non solo e non tanto la torsione autoritaria in sé e per sé, quanto i suoi effetti “produttivi” all’interno della politica di arruolamento sociale al regime di guerra e alla luce dell’attacco e della ristrutturazione della riproduzione sociale. Proprio perché non invochiamo il ritorno delle mediazioni classiche, crediamo non se ne debba nemmeno riabilitare la logica insistendo, ad esempio, sul binomio repressione-resistenza, che rischia di tradursi in dispositivo posturale tutto sommato compatibile con le esigenze e agende politiche della controparte, risultando sterile rispetto alla prospettiva di una trasformazione radicale del presente. Piuttosto che limitarsi a registrare l’aspetto superficiale – ma certamente violento – della neutralizzazione ed esclusione per mezzo di dispositivi criminalizzanti e punitivi, crediamo che focalizzarsi sulla loro capacità di produrre soggettività, narrazioni, relazioni e dinamiche di subordinazione può consentire di valutare fino a che punto i populismi e sovranismi attuali siano in grado di collocarsi nelle dinamiche economico-finanziarie del capitalismo contemporaneo nel quadro della congiuntura di guerra. Detto altrimenti, crediamo sia importante domandarci come queste nuove tendenze del controllo sociale interagiscano, producendo non solo sinergie ma anche attriti e tensioni con le dinamiche di assoggettamento della forza lavoro contemporanea. Per questo, pensiamo che si debba tenere conto tanto dei fattori che destabilizzano i nuovi processi di comando “dal basso”, quanto di quelli che possono svilupparsi nel confronto e nel potenziale scontro tra valorizzazione del capitale e torsione autoritaria.

Parallelamente, la sottolineata difficoltà nella sedimentazione e nella convergenza delle lotte richiede di aprirsi alla discussione non solo sulle potenzialità nate dalle critiche sui modelli organizzativi della militanza e della lotta politica dei decenni scorsi, ma anche sui limiti delle forme organizzative alternative, tendenzialmente orizzontali, reticolari e leaderless, e tese alla connessione di reti transnazionali, sperimentate negli ultimi anni. Sentiamo la necessità di discutere l’impatto di una congiuntura segnata da guerre, crisi climatica, pandemie e backlash – che d'altronde testimonia la potenza di queste forme organizzative assunte da queste lotte –, ma anche di fare un bilancio della loro efficacia per tornare a ragionare sull’organizzazione politica, che non a caso è il tema di questo numero della rivista. Per tutti questi motivi, pensiamo al seminario di maggio come ad un’occasione per posizionarsi all’altezza dell’offensiva in corso e iniziare a costruire un “piano” che possa intrecciare forme specifiche e parziali di contropotere diffuso con visioni d’insieme, favorendo una pratica politica collettiva. Crediamo che questa operazione di tessitura debba partire da alcuni interrogativi, che ci sembra possano essere formulati, almeno provvisoriamente, seguendo la traccia analitica sviluppata nelle pagine precedenti. Come si organizzano e si consolidano, dentro una congiuntura di guerra che va complicandosi e di fronte all’attacco alle forme più varie di mobilitazione e solidarietà, vecchie e nuove istanze, più o meno radicali, che rivendicano diritti sociali e civili, che rifiutano la guerra e l’onda nera dei fascismi e dei nazionalismi? In che modo e in che misura il diritto “illiberale” svolge una funzione dentro i processi di messa al lavoro della cooperazione sociale, garantendo quel tantum di libertà e autonomia che rimane determinante per i processi di valorizzazione del capitale? Quali forme organizzative possono permetterci di costruire quel nuovo internazionalismo che abbiamo invocato più volte, che rifiuti il regime di guerra e assuma la riproduzione sociale come terreno centrale per una trasformazione radicale? Qual è l’effetto della crisi delle mediazioni classiche, con cui, nel bene e nel male, ci siamo relazionate dal dopoguerra ad oggi, anche dopo la crisi del welfare state?

Vogliamo che i tre giorni di seminari, assemblee e workshop di maggio ci diano il tempo e lo spazio necessario per tracciare delle traiettorie di immaginazione politica e forgiare strumenti utili per lotte e mobilitazioni in atto e per quelle a venire. Per questo, sentiamo la necessità di intercettare nuovi processi di attivazione politica, porosi, inclusivi e lontani da tendenze identitarie e autoreferenziali, mappando le pratiche di cooperazione e solidarietà che circolano nelle pieghe degli spazi urbani e che assumono la riproduzione sociale a campo di battaglia per far valere le proprie istanze emancipatorie, senza dimenticare i percorsi di lotta che hanno risuonato nelle strade, nelle fabbriche, negli hub della logistica e nelle università nell’ultimo anno. L’invito, quindi, coi piedi ben piantati nelle ambivalenze e contraddizioni proprie della fase che viviamo, è di provare a tracciare cartografie future, e inedite forme di cooperazione e vita comune.

Copertina del primo numero di Teiko

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